La fragilità dell’Unione monetaria è apparsa in tutta evidenza in questi mesi, con la crisi della Grecia, un Paese a cui corrisponde il 2,6% del Pil europeo. Sulla stampa si rimarca soprattutto il disappunto dell’opinione pubblica tedesca, che ha ritardato la concessione degli aiuti creando ampi spazi per la speculazione finanziaria.
I governi e i cittadini dell’Unione discutono sull’eventualità dell’uscita dalla moneta unica della Grecia, problema intorno cui si intrecciano non solo le esigenze di bilancio degli Stati, ma anche la solidità degli istituti di credito che hanno investito nel debito sovrano greco. Per cui, è ovvio che gli aiuti ci saranno: altrimenti il “buco” nei conti di numerose banche belghe, tedesche, francesi sarebbe importante.
Ma ciò significa che il piano di aiuti sarà motivato essenzialmente dalla difesa del proprio sistema bancario, non dalla solidarietà verso un partner debole: l’Europa è quindi ancora un insieme di Stati che ben lontano da diventare un unicum sul piano economico e politico.
Lo dimostra l’assenza di una politica economica, fiscale, previdenziale comune: al di là del “patto di stabilità” e di un insieme di regole che la burocrazia di Bruxelles ha definito su aspetti marginali della vita socio-economica, non c’è stato alcuno sforzo per rendere omogenee le normative sulle questioni più importanti.
Così abbiamo il paradosso che l’Europa ha concordato quali lampadine ad incandescenza possono essere messe in vendita da Helsinki a Lampedusa, da Madrid a Praga, ma la tassazione sui dividendi può anche raddoppiare da un Paese ad un altro
L’Europa, sui grandi temi, non c’è ancora: e allora si giustifica il diniego del cittadino tedesco, costretto ad attendere i 67 anni per andare in pensione, mentre il lavoratore greco già a 60 anni può trascorrere le sue giornate a pescare spigole nell’Egeo, incassando l’assegno mensile della Previdenza.