Un’economia di mercato può nascere e svilupparsi solo in un sistema democratico, dove la libertà del singolo cittadino sia un elemento fondante della società. Il connubio tra regime autoritario e propositi di sviluppo economico genera una economia dirigista che si scontra con la realtà del mercato, che può espandersi ed evolversi solo in una ambiente dove il cittadino – consumatore non è condizionato da diktat governativi che limitano la sua possibilità di scelta e i suoi desideri di consumo.
Lo sviluppo cinese si è basato finora in misura prevalente sul le esportazioni, che hanno invaso tutto il mondo anche grazie ad un cambio favorevole, risultato di un artificio sul reale valore dello yuan. Ma il mercato mondiale e ormai saturo del made in China, che ora soffre anche della concorrenza di altri paesi con manodopera a basso costo (quali Vietnam, India, Pakistan, Turchia).
Il tasso di crescita del Paese potrà quindi essere mantenuto solo con un incremento della domanda interna, sostenuta da una nuova classe sociale di imprenditori e commercianti che hanno già beneficiato dei vantaggi dell’espansione economica. Questi mostrano uno stile di vita "lussuoso" che inevitabilmente suscita un desiderio di evoluzione sulla classe media, creando le basi per proteste e rivendicazioni da parte di chi vuole entrare a partecipare all’arricchimento del Paese.
In una democrazia, l’aggiustamento del sistema sarebbe facile: miglioramento delle condizioni di vita e degli stipendi e salari della popolazione sarebbero bilanciati da un robusto incremento della crescita dei profitti, grazie al più alto livello dei consumi e quindi dei fatturati. Sarebbe l’instaurarsi di un circolo virtuoso che porterebbe i cittadini del Celeste Impero a condizioni di vita più vicine al mondo occidentale, analogamente a quanto è avvenuto – ad esempio – in Italia negli anni successivi alla ricostruzione, con il boom economico.
Diverso è il caso della Cina, in cui il regime condiziona l’economia interna con divieti di varia natura, non ultimo il recente bando all’uso di determinate parole nella pubblicità: il Governo ha vietato l’uso delle espressioni "supreme", "luxury" e "high class" per Pechino e "best", "unique" e "irreplaceable" a Chongqing, relativamente alla promozione della vendita di abitazioni.
Il motivo di tale decisione risiede nel tentativo di Pechino di condizionare il mercato immobiliare, evitando che la domanda di abitazioni di buon livello si espanda troppo rapidamente, determinando una bolla sul mercato immobiliare. Potrebbe sembrare una misura comprensibile, anche se non accettabile per limitare la corsa dei prezzi delle abitazioni, cresciuti, nei primi due mesi del 2011, in 68 su 70 città campione, tra cui Pechino (+6,8%) e Shanghai (+2,3%).
Ma un’altra espressione entrata nella lista nera del regime deve preoccupare gli imprenditori di tutto il mondo: non si potranno più nominare le "foreign things" nella pubblicità; l’ente preposto, il Beijing Administration for Industry and Commerce, non ha finora precisato cosa si intende con questo termine, ma ha indicato che esso, insieme alle altre espressioni oggetto del divieto, “stavano danneggiando il clima politico”.
Ciò significa che i cinesi non saranno liberi di pubblicizzare, e quindi di comprare, ciò che preferiscono, che sarà il regime a decidere, non il mercato, cosa potranno acquistare e quali potranno essere i loro desideri. Una misura che nasce dall’evoluzione della bilancia commerciale cinese, che nel mese di febbraio 2011 un deficit pari a 7,3 miliardi di dollari. Infatti gli scambi commerciali sono aumentati su base annua del 10,6% per un totale di 200.78 miliardi di dollari, suddiviso tra un export aumentato del 2.4 % su base annua, per 96,74 miliardi di dollari, e un import di 104,04 miliardi, in crescita del 19.4%.
La decisione cinese deve risvegliare gli imprenditori occidentali, i quali devono prendere atto che i beni provenienti dai Paesi esteri non sono visti di buon occhio. In altri termini la Cina intende espandere le esportazioni, ma limitando l’import. Un elemento di riflessione anche per i brand italiani della moda, del lusso, dell’arredamento e di tutti coloro che vedevano nella Cina un immenso mercato di “nuovi ricchi” a cui vendere. Un sogno contro cui le regole del “non mercato” fissare dal regime di Pechino si scontreranno.
Inoltre, il nostro Paese rischia di essere particolarmente penalizzato da tali tendenze, in quanto il nostro export verso la Cina (8,63 miliardi di dollari, contro ben 29 miliardi di importazioni)è composto in prevalenza da beni di consumo di lusso, mentre la Germania esporta soprattutto tecnologia e macchinari, merci di cui la Cina continua ad avere necessità.