Il Made in Italy elemento chiave delle nostre esportazioni, è stato in questi giorni oggetto di un dibattito che ha contrapposto diverse politiche aziendali. L’inchiesta RAI sulla filiera produttiva del marchio leader nei piumini ha svelato la presenza di lavorazioni svolte all’estero, in Paesi a basso costo della manodopera, a discapito delle fabbriche nazionali. Ci si chiede se è anch’esso vero “prodotto italiano”, o se tale denominazione spetta solo ai brand che svolgono tutta la lavorazione entro i confini nazionali. Un dibattito che sembra contrapporre il profitto (produco dove costa meno, anche se ciò implica il coinvolgimento di lavoratori con meno tutele e diritti) all’etica (se beneficio della denominazione Made in Italy devo produrre in Italia, anche se con costi maggiori, garantendo posti di lavoro a cittadini italiani), ma che invece mostra la debolezza strategica dei nostri brand più famosi.
Perché le produzioni delocalizzate NON sono più “made” in Italy, ma “designed” in Italy: il loro valore non è soltanto nel design (come per i prodotti Apple, il cui valore non sminuisce per l’essere costruiti in Cina piuttosto che in Usa), ma nelle materie prime utilizzate e nella lavorazione, che in Italia è affidata ad artigiani che hanno una cultura della qualità ben diversa dal sottopagato operaio cinese o della Transnistria. Basti pensare al know –how del personale che opera nei nostri distretti: le calzature, l’arredamento, gli occhiali, ecc.
Rinunciare a produrre in Italia svaluta i nostri brand, ne cancella i requisiti di eccellenza che il mondo riconosce loro, mettendo a rischio il futuro del comparto. L’errata percezione di molti stilisti, convinti che il valore del brand risieda esclusivamente nella loro creatività e non anche nella bravura ed esperienza dei suoi artigiani, espone l’intero Made in Italy al declino.