Tempo fa veniva chiamata, almeno alle origini, sharing economy, vale a dire l’economia della condivisione. L’argomento è stato sempre dibattuto da studiosi con tendenze politiche di nature diverse. C’è una certa tradizione essenzialmente avversa al consumismo, al profitto e al libero mercato. E’ sufficiente leggere Lawrence Lessig che nel 2007 fu uno dei primi ad utilizzare questo termine per dare un segnale su come tale cultura del mettere insieme sia stata pensata come alternativa alle logiche di quello scambio che invece ammette rapporti contrattuali finalizzati al profitto. La necessità di ricorrere al laboratorio delle idee, deriva dal cambiamento vertiginoso che stiamo vivendo di giorno in giorno, dalla forte richiesta da parte del mercato di “innovazione” e “creatività”, ma come già abbiamo avuto modo di scrivere, il dramma è che non c’è un ricambio, le persone che scrivono vengono da lontano e non hanno avuto la necessità di adeguarsi visto che sono impegnate sul piano ideologico e politico. Oggi queste persone vengono spazzate via dalla realtà delle cose, dai mutamenti, dalla partecipazione dei cittadini e dal grande ruolo che oggi ha un network così importante quale è la rete.
Ognuno si sente teoricamente partecipe dando il proprio contributo del proprio pensiero attraverso la rete, mezzo di comunicazione democratico di produzione dal basso. Bisogna investire ed attuare i giusti approfondimenti, devono fare ciò sia le piccole realtà aziendali che le grandi aziende, con piani di ricerca e sviluppo, relativi business plan per ottenere gli opportuni ritorni ed essere competitivi.
Oggi la realtà richiede un approfondimento di temi fondamentali vedi infrastrutture, banda ultra larga, la crescita digitale, piano per l’industria 4.0, scuola digitale, etc. Una delle esigenze principali, che molti sottolineano, riguarda la burocrazia, in particolare quella che ricade sul Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e sul Ministero dello Sviluppo Economico che hanno tra l’altro, il compito di promuovere progetti con finanziamenti europei, nazionali e regionali.
Servono criteri certi e sicuri, a partire dai criteri di valutazione fino agli indicatori e ai contenuti della ricerca: quale tipo di attività viene svolta dall’impresa; come dette ricerche possono essere collocate verso altri paesi europei e non; come sollecitare il mondo dell’università con un’attività formativa adeguata e al passo coi tempi, evitando di ripetere cose vecchie e superate. Queste sono solo alcune considerazioni che il Governo è tenuto a valutare, cercando di indicare linee guida utili e necessarie che possano far comprendere a tutti che il paese vuole
uscire da questa aridità culturale. Ormai da diversi anni sentiamo ripetere sempre la stessa solfa, cosa che diventa pericolosa perchè invita il cittadino a non ascoltare più, lo hanno dimostrato perfettamente i sondaggi per le presidenziali USA, per il Brexit e, non ultimo, per il referendum del nostro Paese. Ancora una volta il risultato voluto dai cittadini non ha trovato riscontro in ciò che era previsto dai sondaggisti, la forbice del loro margine di errore si fa sempre più ampia. Con questo cosa voglio dire? Che il laboratorio delle idee è valido se è serio, innovativo e si serve di indicatori e parametri concreti e adeguati, altrimenti nel paniere del Cipe continuiamo ad avere ancora la ciriolina o il gettone telefonico.