Henry Chesbrough nel 2003 ha coniato il termine "Open Innovation", all’Università di Berkeley in California dove è docente di economia, pubblicò ormai 15 anni fa il primo saggio intitolato: “Open innovation: The new imperative for Creating and Profiting from Technology”.
Nel modo di fare impresa quello di open innovation è un concetto diffuso ormai da tempo, come afferma lo stesso docente di economia, esisteva già prima del suo saggio, c’erano già aziende che cercavano all’esterno strumenti, competenze e soluzioni tecnologiche, era importante però definire un modello.
Un modello che Chesbrough ha definito come “un paradigma che afferma che le imprese possono e devono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche”.
Questo è il segreto della crescita, un paradigma ribadito più volte a livello europeo e nazionale che però ancora viene intrapreso in modo molto esiguo. Importante collaborare con l’esterno, con il mondo universitario e accademico, con i centri di ricerca e con le startup; il segreto è fare rete, condividere competenze.
Nella Silicon Valley ad esempio succede proprio questo, la relazione tra imprese e università è un continuum. Pensiamo a quello che succede in un case history di riferimento, quello dell’Università di Stanford, il secondo campus universitario per dimensioni al mondo, che ospita ogni anno i CEO e i Venture Capitalist della vicina valle tra Palo Alto e Menlo Park. Questi portano la loro esperienza ai ragazzi, come fonte di ispirazione e insegnamento all’Università. Non è un caso se quell’ecosistema dell’innovazione funziona così bene, si fonda proprio sul dialogo, sul confronto fra le due entità, networking e relazioni.
Convividendo in modo bidirezionale le proprie competenze, i vantaggi sono reciproci, perchè le aziende possono sfruttare la ricerca e la sperimentazione delle università, trovando innovazione, e le università dal canto loro hanno un’approccio pratico e concreto su quelle che sono le esigenze del mercato, oltre che attingere alla possibilità di finanziare i propri progetti di ricerca. Dal concetto di open innovation deriva quello di condivisione della conoscenza, da cui deriva lo sviluppo. Idee e tecnologie devono svilupparsi tra università e imprese.
La collaborazione tra imprese e università in Italia avviene ancora troppo poco. Serve supporto pubblico, le aziende in quel modo potranno muoversi, agire. Il tessuto imprenditoriale italiano ha qualche caso virtuoso, lo stesso Chesbrough in un’intevista per Corriere Innovazione cita il caso di Enel, come un modello di riferimento, ma anche Loccioni e Leonardo "vantano esperienze di open innovation già avviate". Un tessuto quello del bel Paese che ha molte PMI, in molti si sono chiesti se sia applicabile, la risposta è certamente affermativa, lo stesso Henry Chesbrough ne porta testimonianza, affermando che quello dell’open innovation è un modello applicabile a qualunque economia, al Garwood Center for Corporate Innovation, ad esempio, lo stanno sperimenatando per un villaggio rurale indiano di 8 mila abitanti dove alcune aziende hanno fatto investimenti per portare la Rete e innovare le produzioni agricole e tessili, il processo di connessione e la condivisione di conoscenza stanno portando l’economia ad una crescita repentina.
Due esempi virtuosi di open innovation in corso, sono i network di professionisti e aziende, così si organizzano, e la sostenibilità perseguita dalle imprese mediante la collaborazione. Quindi, cercare input, idee, soluzioni innovative fuori dai propri confini, aprendosi all’esterno, attuando politiche di apertura e condivisione, per innovare e alimentare lo sviluppo, facendo networking e preservando la sostenibilità. Questo deve essere un fondamento nelle strategie di impresa per tutti coloro che vogliano resistere e innovarsi. Dobbiamo diffondere questa mentalità di apertura, estenderla ai processi e alle strategie d’azienda. L’Italia e le imprese italiane sono avvisate.