L’accordo sulla riforma del Patto di Stabilità e di crescita dell’Unione Europea accoglie la proposta del ministro Tremonti di fare riferimento al debito aggregato (debito pubblico + debito privato) per valutare il debito globale di una nazione. Una impostazione che rappresenta il superamento della visione del “rischio Paese” confinato entro la solidità del debito sovrano, e che discende direttamente dal dipanarsi della crisi dei mutui subprime, situazione in cui è stato il sistema pubblico a farsi carico del debito privato accumulato dal sistema bancario.
La riforma del Patto era diventata necessaria dopo la crisi del debito pubblico della Grecia, che ha evidenziato la pericolosità di un Paese con i conti fuori controllo per la stabilità finanziaria dell’Europa, in un mercato globale caratterizzato da ingenti capitali a disposizione della speculazione finanziaria. Per alcuni mesi i mercati sono stati condizionati dalla situazione della Grecia, e da “voci” riguardanti altre nazioni europee, con scarsa cortesia ribattezzate PIGS (maiali).
La Germania, in particolare, chiedeva regole più rigide e meccanismi sanzionatori più immediati per limitare i danni causati da una gestione poco oculata del debito sovrano, e l’accordo raggiunto va in tal senso, ma con equilibrio.
Infatti, la riforma guarda alla stabilità finanziaria di una nazione facendo riferimento ad un ambito più ampio di quanto rappresentato dal debito pubblico: considerare anche il debito delle famiglie e l’esposizione finanziaria delle imprese è fondamentale per stimare la capacità del Paese di reagire a shock economici di qualsiasi natura. Esiste una interconnessione tra tali grandezze, come ci ha dimostrato il caso americano, in cui è l’iniezione di liquidità dello Stato a coprire le falle nei bilanci delle banche e a fornire incentivi alla crescita economica.
Il limitato debito pubblico Usa consentiva tale manovra, che sarebbe stata invece insostenibile per l’Italia: ma nel nostro Paese, dove oltre l’80% dei cittadini è proprietario della abitazione in cui risiede, non si è verificata nel corso della crisi attuale un crescita abnorme dei senzatetto, come purtroppo è avvenuto negli Usa. Noi italiani, abbiamo potuto rivolgerci al sistema bancario, fondamentalmente sano e adeguatamente capitalizzato, per concordare una “moratoria” sui mutui, senza distruggere gli investimenti immobiliari in corso da parte delle famiglie.
Queste considerazioni ci portano anche a rivedere molti dei (pre)giudizi che da anni si associano al nostro Paese: accusato di essere “in declino”, di non innovare, di non crescere: in realtà, negli ultimi quindici anni si sono considerati come “più dinamici” Paesi quali gli Usa, la Gran Bretagna e la Spagna, in cui la dinamica del Pil è frutto di un modello squilibrato di crescita, che si fonda sulla finanza, sul mercato immobiliare, sull’indebitamento privato. Sono “paesi cicala” che si contrappongono a “paesi formica” quali la Francia, la Germania e l’Italia, in cui l’economia non è mai diventata “di carta”, ma ha continuato a crescere – anche se a tassi limitati – facendo leva sull’industria e sui servizi. Quando la “bolla immobiliare” – come tutte le “bolle” – è scoppiata, trascinando con sé l’intero sistema finanziario di supporto, la realtà è emersa in tutta la sua crudezza: i Paesi “dinamici” avevano vissuto largamente al di sopra delle loro possibilità. Infatti – al 2007 – il debito delle famiglie e delle imprese non finanziarie italiane è inferiore rispetto alla media europea.
E a tutti coloro che rivolgono critiche all’impostazione proposta del ministro Tremonti, ricordiamo le parole di Paolo Sylos Labini, tratte da un suo articolo del 2003 su Moneta e Credito, in cui l’economista proponeva di adottare un approccio sistemico al debito:
La sostenibilità dei debiti non va giudicata isolatamente, ma considerando insieme i debiti privati delle famiglie e delle imprese private con quelli pubblici.
Aggiungendo che:
Il problema dei debiti e della loro sostenibilità va giudicato non solo dal punto di vista degli stock ma anche da quello dei flussi.
Un criterio che ora viene adottato dalla Unione Europea come base per un più efficace controllo dell’operato dei singoli Paesi.