Il dato sulla produttività indicato dall’Istat segnala la sostanziale incapacità del Paese ad evolversi traendo vantaggio dalle nuove tecnologie e dal diffondersi dei processi di innovazione. Un tasso di crescita medio dello 0,5%, misurato in un arco di tempo che va dal 1992 al 2011 rappresenta una nazione che deve rivedere con serietà ed impegno tutta la sua impostazione. A livello di governo, la classe politica deve riflettere sui "fanalini di coda" della produttività, che coincidono con i settori da essa direttamente amministrati: l’istruzione, la sanità, il "sociale". Le diverse lobby devono chiedersi se è nella loro chiusura alla concorrenza che devono ricercarsi le cause della bassa crescita della produttività nelle attività professionali; analogamente, il settore delle costruzioni dovrebbe domandarsi se la scelta di rivolgersi a personale non qualificato, ma poco costoso (anche perché spesso privo di contratto) è stata globalmente ottimale, alla luce della riduzione della produttività del -1,2% segnalato dall’Istat.
La trattativa imperniata sullo scambio di incentivi fiscali a fronte di un incremento di produttività esprime solo una parte del problema. Che non è tanto di risorse economiche, quanto soprattutto di impostazione strategica e di impegno personale. Se l’Italia, nel decennio 2001-2010, figura all’ultimo posto tra i 27 paesi europei, la responsabilità è di tutti: di una scuola meno selettiva e formativa e dei suoi studenti che puntano al diploma, ma non alle conoscenze che dovrebbe certificare; di una classe politica che ha badato più a interessi personali e di frazioni del proprio elettorato piuttosto che al bene comune; di imprenditori che hanno preferito comode scorciatoie quali il lavoro nero o la contiguità ai già citati politici invece di investire in innovazione e formazione del personale; del sindacato che difende il lavoratore anche se ruba o danneggia l’azienda.