Non è solo il tema dell’immigrazione a dividere l’Europa. L’assenza di un coordinamento comune e la tendenza a privilegiare gli interessi nazionali emerge in tutte le aree critiche della governance globale: l’economia, il mercato del lavoro, i sistemi di tassazione. Il processo di integrazione è ora mirato alle emergenze in atto, ovvero alle politiche fiscali e di bilancio, alla luce della crisi che ha investito la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo.
Sulla necessità di raggiungere l’accordo per una politica comune vi è un sostanziale consenso, favorito anche dal confronto internazionale con macroaree e nazioni la cui potenza sovrasta il singolo Paese europeo: gli Usa, la Cina, l’Estremo Oriente, sono soggetti nei confronti dei quali è necessario che l’Europa si presenti unita. Tuttavia, come già è avvenuto nella elaborazione di una comune politica di gestione e sostegno all’agricoltura, gli attriti e le contrapposizioni sono evidenti.
Se finora l’integrazione europea stenta a decollare, la motivazione è duplice: da un lato, la scarsa propensione alla trattativa degli stati "forti" (quali la Germania e la Francia), che tendono a sfruttare l’occasione della governance comune per conquistare privilegi per le proprie imprese. Ad esempio, se una quota importante dei prodotti caseari "tipici" italiani è preparato con latte proveniente dalla Germania, e ora da altri paesi dell’Est, è evidente che la suddivisione delle quote di produzione del latte ha penalizzato le aziende italiane. Di conseguenza, i Paesi che temono che la centralizzazione delle decisioni danneggi le proprie imprese, tendono a rifiutare la elaborazione di politiche comuni.
Ogni nazione, nel tempo ha raggiunto un proprio equilibrio (e così il suo tessuto produttivo), composto da diversi mix (tassazione, welfare, sicurezza del lavoro, peso dello Stato). Ora la prima conseguenza della nascita di una politica comune su uno qualsiasi dei temi economici (armonizzazione delle rendite finanziarie, aliquote di tassazione, status degli ordini professionali, ecc) rappresenta un rischio enorme sulla stabilità della singola nazione e sul benessere dei suoi cittadini.
E’ una situazione molto complessa da gestire, che non può essere lasciata in mano ai burocrati di Bruxelles, ma deve diventare un tema politico di discussione nei singoli paesi, coinvolgendo i cittadini e prospettando loro le diverse alternative e i possibili benefici futuri.
Proseguire come si è operato finora, ovvero con direttive che scendono "dall’alto" e che faticano a trovare applicazione in ambito locale, specie se incidono profondamente sull’economia del luogo rischia di mettere in difficoltà la coesione sociale della UE. Per esempio, l’anno scorso, la regolamentazione della pesca decisa a Bruxelles ha avuto pesanti conseguenze sui territori che da essa traevano la loro ricchezza.
Equilibrio, negoziazione e attenzione alle realtà locali sono i presupposti per la corretta elaborazione, e per la successiva pacata accettazione, dei prossimi passi che l’Europa vorrà compiere verso una sempre maggiore cessione della sovranità nazionale nei confronti di essa.