La globalizzazione ha invaso i mercati occidentali di merci a basso costo prodotte nei paesi emergenti, sottraendo mercato alle imprese nazionali. La Germania ha mantenuto la sua stabilità grazie ad una politica industriale basata sull’innovazione tecnologica e gli investimenti, che ha consentito di incrementare la redditività aziendale e di agire su settori produttivi al riparo dalla concorrenza delle manifatture dell’estremo oriente.
In Italia, invece, la scelta politica per migliorare la competitività delle nostre aziende è stata di agire sul tasso di cambio e sulla riduzione del costo del lavoro, senza investire in infrastrutture tecnologiche, ricerca, innovazione. Una strategia miope, che ha consentito di dirottare su altre voci della spesa pubblica le risorse da destinare alla realizzazione di nuove linee ferroviarie, autostrade, reti telematiche e agli investimenti in innovazione (università, centri di ricerca). Le nostre aziende ora non possono più avere benefici da svalutazioni competitive (siamo nell’Euro), si confrontano con i costi del lavoro cinesi che sono un decimo dei costi italiani e utilizzano una delle peggiori reti infrastrutturali d’Europa. Nel contempo, si è sviluppata un’abnorme spesa pubblica clientelare ed improduttiva, che drena risorse da un sistema economico in crisi profonda da diversi anni.
Questo è lo scenario che deve analizzare chi, al Governo, vuole proporre "misure per la crescita": alleggerire la spesa pubblica, con conseguente riduzione delle imposte per chi investe e produce, destinando maggiori risorse all’Università e alla Ricerca.