L’unione economica e monetaria e le sue possibili evoluzioni

La firma nel 1992 del Trattato di Maastricht segnò una nuova ed importantissima tappa dell’integrazione europea: l’affermazione della vocazione politica dell’Europa. Con esso si costituì l’unione economica e monetaria (UEM) dell’Europa e si completò il progetto di mercato unico europeo previsto dall’articolo 3 del TUE.

La politica economica di Maastricht prevedeva tre elementi fondamentali, quali la garanzia da parte degli Stati membri del coordinamento tra le diverse politiche economiche, l’istituzione di una sorveglianza multilaterale di tale coordinamento e la soggezione a norme di disciplina finanziaria e di bilancio. La costituenda politica monetaria, inoltre, mirava ad istituire una moneta unica per garantire la stabilità del mercato, con la stabilità dei prezzi e il rispetto dell’economia di mercato come suoi corollari.

L’unione economica e monetaria fu completata nel 2007 dal Trattato di Lisbona che attuò una nuova ripartizione delle competenze tra l’UE e gli Stati membri e consentì per la prima volta nella storia alle istituzioni europee di legiferare e di adottare misure in nuovi settori fino ad allora oggetto di domestic jurisdiction, ribaltando la tradizionale idea secondo cui le politiche economiche e monetarie erano principalmente ad appannaggio dei singoli Stati membri.

Ai giorni nostri, si registra nell’Eurozona una disomogeneità di valore per la moneta unica. L’Euro, infatti, è una moneta sottovalutata in Germania (intorno al 15%) e sopravvalutata in altri Stati membri (10-14%) e ciò comporta un surplus dell’export tedesco ed allo stesso tempo un deficit commerciale per gli altri Paesi più deboli, con conseguente deflazione per questi ultimi. Questo surplus commerciale, seppure si attesti al 7,1% da perlomeno cinque anni, non viene comunque allineato dal governo tedesco al limite massimo del 6% previsto dal Six-Pack, considerato anche che le sanzioni per questo inadempimento tardano ad arrivare.

In Italia il debito pubblico è aumentato a dismisura, arrivando ai 2.157,5 miliardi di euro e, nonostante le manovre e le nuove imposte, cresce di anno in anno, collocandosi oggi al 135% del Pil. Il Premier Renzi ha proposto come possibile soluzione tra la devastante applicazione del Fiscal Compact e l’uscita dall’Eurozona, paventata da molti Paesi in difficoltà, il principio della flessibilità. La Banca centrale Europea (BCE), d’altro canto, fa filtrare l’intenzione di procedere con il cd. quantitative easing, cioè l’acquisto dei titoli degli Stati dell’Unione in disavanzo, in modo da finanziare nuove politiche di sviluppo. Le risorse accertate per porre in essere il quantitative easing, però, sono esigue -tra i 25 e i 30 miliardi di euro- rispetto alla cifra necessaria stimata dei 300 miliardi di euro.

L’idea della BCE sarebbe quella di istituire un nuovo fondo, l’European Redemption Fund, ERF – Fondo per il rimborso del debito-, nel quale andrebbero a collocarsi tutti i disavanzi dei Paesi che sforano il limite del 60% tra il deficit e il Pil. Da un primo esame della bozza del Trattato istitutivo dell’ERF notiamo come i suoi principali poteri sarebbero quelli di: 1) emettere sui mercati gli eurobond, dando in garanzia le riserve valutarie, le riserve auree ed i beni dello Stato –l’Italia dovrebbe impegnare asset di valore come l’Eni, l’Enel e la Finmeccanica-; 2) incassare direttamente le imposte degli Stati in caso di mancato pagamento dei bond; 3) togliere agli Stati aderenti la giurisdizione sul proprio debito pubblico, cosicché non possano più tornare alla moneta nazionale.

Se dovessimo seguire questo nuovo progetto dell’ERF, tuttavia, andremmo senz’altro incontro alla fine della sovranità nazionale, così come è sempre stata intesa, ed avremmo una politica economica sempre meno attenta alle specificità ed identità locali, alle piccole e medie imprese, ai lavoratori delle singole Nazioni. In altri termini, faremmo gli interessi delle multinazionali, dei grandi capitalisti e dei “maghi” della finanza, che così si ritroverebbero ad acquisire a prezzi scontati i migliori asset degli Stati Membri.

Dinanzi a queste previsioni apocalittiche, tuttavia, è sempre bene non perdere la speranza. Occorre ritornare ad essere più attenti agli interessi dei popoli per far nascere e portare avanti con molta audacia un dibattito costruttivo a livello nazionale, prima, e a livello di istituzioni europee, poi, per dare nuova linfa alle politiche di sviluppo dei singoli Stati membri. Gli Stati, inoltre, dovrebbero riscoprire, tra gli altri, il principio di leale collaborazione e scongiurare i possibili conflitti che sicuramente oggi si giocano sul piano degli interessi economici.

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