"Jihackismo" e insinuazione del terrore nella digital culture

La trasformazione della società si percepisce anche e soprattutto attraverso la comunicazione in una vera e propria mediamorfosi in continuo divenire, che con l’avvento del digitale non ha potuto che contagiare anche un campo estremamente minaccioso ed inquietante come il terrorismo. L’evoluzione che si è compiuta in questo ambito è riprova di una trasformazione del nostro tempo che è anche culturale, oltre che sociologica e comunicativa. Pensiamo a quanto è cambiato da Al Qaeda all’ISIS. In particolare, pensiamo al modo di interfacciarsi alla Rete, l’approccio al cyber-crime, alla cyber-jihad, laddove la singola azione diventa anche componente di un più ampio conflitto definito cyber-warfare.

Certamente nella Rete si può fare terrorismo, la minaccia si è evoluta e si è trasformata. Il terrorista conosce le tecnologie e nella jihad si serve della Rete per diffondere la radicalizzazione

L’ideale terroristico vorrebbe che l’attacco informatico avesse lo stesso effetto dell’attacco tradizionale, ma la realtà non lo permette, perchè non vi è la potenza distruttiva e minatoria di un attacco normale, non ha la stessa efficacia comunicativa del terrore, o almeno non vi è ad oggi, ancora non si è scoperto un metodo, una vulnerabilità che possa mettere in pericolo concretamente e direttamente delle vite umane, anche se non è un’ipotesi così remota e un brivido di inquietudine non manca se si pensa alla moltitudine di infrastrutture critiche e ai sistemi "cyberfisici" di domani. Perciò, al momento, il terrorista si serve della Rete non tanto per effettuare l’attacco in sé, ma semmai per prepararlo, per alimentare e manovrare un piano più ampio che poi porta come fine ultimo all’attacco tradizionale. Ad esempio, i Jihadisti per obiettivi strategici non vanno ad investire denaro per lo sviluppo di un mailware, o almeno non tanto quanto investono per un attentato a base di esplosivo e mitra. I malware non sono missili, non sono bombe. Culturalmente ancora non hanno questo approccio. Attualmente la loro grandissima necessità è di comunicare in maniera sicura quindi, ad esempio, sfruttano le competenze tecniche dei loro hacker per la messa in sicurezza delle comunicazioni fra i militanti. Oppure in Rete, piuttosto, si attivano le procedure di propaganda e di reclutamento.

In questa prospettiva, pensando a come ulteriormente si potranno evolvere i fenomeni cyber-terroristici, dovremmo pensare accuratamente ai rischi che corriamo connettendo sempre più device e infrastrutture alla Rete, in piena ondata IoT, Smart Home, Smart Cities, senza il giusto controllo e le adeguate contromisure, potremmo servire dei percorsi preferenziali in grado di comportare grossi danni economici e fisici alle nostre infrastrutture e a noi stessi. Al tempo stesso stare in un mondo social, iperconnesso ci espone a rischi maggiori. Siamo tutti vulnerabili, dobbiamo solo capire dove e come lo siamo, scovare le falle che consentono ai nostri nemici di attaccarci, dobbiamo trovarle per riuscire a renderle sicure.

L’attenzione va posta su più livelli, perchè il cyberspazio è un ambiente cybersociale e non solo tecnologico. La mediamorfosi con l’evoluzione dell’infrastruttura digitale e la diffusione di un cultura mobile ha portato alla trasformazione dell’infospazio terroristico. In questo contesto si mira ad alimentare il “mobile pain” sfruttando sadismo e narcisismo digitalizzato. Assistiamo alla proliferazione degli Hyper Violent Tubes con contenuti sadici, inquietanti e “shockanti”, caratterizzati talvolta da una dimensione persino esperienziale, che fa leva sulle regole base dello spettacolo e dell’intrattenimento. Assistiamo a l’iperviolenza veicolata tramite i social media.

Cultura digitale e cultura del terrorismo si fondono, la cellula terroristica elabora la propria tattica: sfruttando la dimensione cyber-sociale e cyber-culturale si esplicitano in una fruizione visuale intima fenomeni quali “gamificazione del conflitto” e “distant suffering”. Anche con queste istanze, afferma Arije Antinori, studioso, docente e ricercatore presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università “La Sapienza”, il "Jihackismo" oggi si è affermato come vera e propria strutturazione culturale.

Seguendo gli studi e le ricerche di Antinori emerge che la cyber-jihad, al momento, si esplicita prevelentemente su tre fonti: a livello di cyber-reclutamento di hacker sia per la fase difensiva che offensiva; a livello di cyber-attack anche se con ridotte velleità distruttive, ma semmai con l’intento di sottrare dei dati importanti (data exfiltration

L’Islamic State manifesta così su più livelli la propria tattica cyber di terrorismo. Secondo una ricerca del magazine francese Liberation, solo nel 2015 il Califfato avrebbe diffuso nel Web 15000 fotografie, 800 video in 11 lingue e circa 20 riviste. Il fenomeno sociale, culturale ma anche comunicativo è globalizzato. Il Cyber-Califfato è più che mai una chiave strategica ritenuta estremamente importante. Molti contenuti audio video rilasciati dal collettivo Islamic Cyber Army, hanno un orientamento globale, spesso sono in inglese e palesano la natura anglofona dei membri.

Per questo dobbiamo renderci conto che il "jihackismo" esiste più che mai ed è elemento fondante di una “cultura globale del terrorismo”.

Per prendere le misure ad una cultura dobbiamo avviare una controcultura, che sia dotata di consapevolezza, che promuova un nuovo approccio, conoscenza approfondita e competenze specifiche. La cyber-jihad caratterizza una sub-cultura, un linguaggio, un ambito relazionale costituito su cardini sociali da cui scaturiscono strategie, metodi e tecniche di comunicazione.

Su questi paletti si deve sviluppare una serie di procedure per tutelarci, prima ancora che ricorrere al sistema che poi si oppone all’arma, serve un sistema di prevenzione e contrasto che mitighi le conseguenze. In tutto questo è necessaria una sinergia fra dimensione preventiva tradizionale e digitale.

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